Quando un vestito parla più di me
Quando un vestito parla più di me
Di Marta Mancosu
Può un indumento rendermi oggetto sessuale?
Può una gonna corta attaccarmi l’etichetta di “facile”, insieme a quella del prezzo?
Può il mio piercing scoperto dare libero sfogo a commenti indecenti o a bocche mezze aperte pronte ad assaggiarti nei pensieri (se hai fortuna)?
Può uno stivale provocante farmi sentire troia?
È giusto lasciare quelle calze a rete chiuse nell’armadio, in compagnia di quel top di pizzo fucsia o con quella canotta corta che hai tanto desiderato e che ora dorme al buio perché ti senti sbagliata a indossarla?
È normale rinunciare a qualcosa che ti piace, pur di evitare parole, commenti, sguardi ammiccanti al bar del paese?
Perché succede questo? E perché, alla fine, quella a rinunciare sono sempre io? Siamo sempre noi?
Vi ricordate la storia del privilegio? Ecco che ritorna, ovviamente. Il privilegio, infatti, è figlio e conseguenza della società e la società, come ormai saprete bene, è basata sul patriarcato.
Brutta bestia, eh, il patriarcato; ha deciso di rappresentarci come oggetti meramente sessuali, come decorazioni, come bersaglio, come argomento di discussione per ogni cosa che facciamo, per ogni cosa che diciamo, per quello che, appunto, decidiamo di indossare.
Brutta bestia, sì, perché a causa di questi paradigmi ci sentiamo e ci sentiremo sempre oggetto di insulti, giudizi, sguardi; una sorta di pungiball infinito e instancabile. Ma stanche lo siamo, eccome se lo siamo.
Brutta bestia, sì, perché mi fa e ci fa rinunciare a qualcosa per paura di essere guardate e di essere giudicate negativamente; poi, se non rinunciamo e decidiamo di vestirci in qualsiasi modo, sappiamo in partenza che “faremo parlare”. Tutto questo accade perché ancora oggi, nel 2021, vive una cultura patriarcale molto forte che vede le donne (e il loro corpo, in particolare) come meri oggetti sessuali messi a disposizione per l’uomo. In questo modo, però, non solo siamo oggettificate sessualmente, ma non godiamo nemmeno della libertà che ogni essere umano dovrebbe avere, quella libertà di prendere delle decisioni per sé, di essere sessualmente esplicite per se stesse perché “no, così non va bene”.
Ci siamo immers* tutt* in questa cultura; la stessa che, appunto, porta in primis gli uomini (ma non solo) a sentirsi liberi di potersi comportare come vogliono senza che nessuno dica niente; la stessa che consente loro di esprimere ad alta voce ciò che gli passa per la testa, mettendoci in difficoltà, facendoci sentire a disagio e soprattutto facendoci sentire sbagliate e, credetemi, non è una bella sensazione.
“Ma fregatene, che te ne importa…” – “Così fai il loro gioco, sei debole, sarai sempre più debole” – “Non ci fare caso, non contano nulla…”. Eppure, quei commenti e quegli sguardi, hanno sempre contato qualcosa.
Personalmente ho sempre avuto (e ho tuttora) un rapporto complesso con il mio corpo, così come ho sempre avuto uno strano e complesso rapporto con i vestiti che decidevo di indossare (ma anche qui, state pronte per un’altra storia). Ho passato gli anni dell’adolescenza ponderando ogni mia scelta di outfit; ho “osato” con vestiti corti, minigonne di jeans e collant velati, ma (perché un ma non manca mai) ho sempre cercato di rimanere dentro la soglia che io stessa definivo “del pudore”, perché beh, non si sa mai.
Eppure, stranamente, non bastava.
Eppure, quella soglia del pudore veniva presa a calci in faccia e asfaltata ogni volta. Che poi, se ci pensiamo, chi stabilisce quale sia questa soglia?
Eppure, quella gonna di jeans, ha fatto spesso di me oggetto di discussioni, perché “Sei un po’ troppo nuda”, “Ti si vede il culo”, “Ammazza che gambe”, “Un po’ di più, dai”.
Perché devo sentirmi sbagliata a indossare qualcosa?
Perché non posso sentirmi a mio agio con i vestiti che scelgo, senza avere la preoccupazione di essere giudicata, di essere additata, di essere molestata e offesa sessualmente?
Nasciamo e cresciamo in una società che stabilisce delle “regole” e in queste regole ci si deve rientrare, o meglio, si dovrebbe rientrare. Queste regole ti dicono che se vuoi essere “risparmiata”, non devi scoprirti, non devi mostrare il culo, non puoi girare senza reggiseno con i capezzoli in vista, se ti si intravede il perizoma sei una a cui piace fare sesso e via dicendo all’infinito.
Ricordati, però, che se decidi di trasgredire a queste “regole” imposte dalla società beh, sarà sempre e solo colpa tua. Nel peggiore dei casi, poi, “vestita così se l’è cercata”.
La società non ci aiuta, ma non ci aiuta proprio mai.
Non ci aiuta perché mette sotto pressione, ci propone continuamente modelli di bellezza fasulli, impossibili e inesistenti. Non ci aiuta perché ci illude, almeno ci prova, poi sta a te avere la forza di remare contro, di lavorare su te stessa e capire che vai bene così, a prescindere.
Non ci aiuta perché dobbiamo sentirci dire quanto siamo zoccole così vestite, quanto potevamo pensarci bene prima di scegliere quel jeans, quanto siamo assolutamente fuori luogo con quella maglia trasparente. Dobbiamo sopportare gli sguardi giudici maschili ma anche femminili perché purtroppo, e mi duole dirlo, lo slut shaming è un fenomeno sociale che colpisce indistintamente uomini e donne (chi non si è mai sentita gli occhi addosso per un vestito o un look un po’ troppo – a detta loro – provocante?).
Non ci aiuta perché qualsiasi cosa decideremo di indossare, manderà un messaggio.
Non ci aiuta perché ci fa sentire in colpa per qualcosa che di colpa non ha nulla e il senso di colpa è il tasto più pericoloso che, volta per volta, spinge sempre più forte fino a farci diventare nulla, fino a farci sentire il nulla.
Per colpa di questa società che mai ci aiuta, ma anzi, complica sempre tutto.
Il punto centrale, però, è sempre e solo uno: se decido di indossare una cosa piuttosto che un’altra, non devo giustificarmi né tantomeno devo essere giudicata.
Il mio abbigliamento non determina la mia persona; il mio abbigliamento deve farmi stare e sentire bene.
IL MIO ABBIGLIAMENTO NON TI DICE DI SI!
Marta